Silenzio 21/7


Raccontato dall'autore

Inizio questo racconto oggi, 20 gennaio 2022, qualcosa su questo lavoro ormai datato, ma non ancora passato perché ancora vivo e ancora molto attuale, cristallizzatosi nella confusione dei tanti commenti ad oggi sentiti e dei quali, quasi nessuno, rispecchia in pieno il senso e il non senso di questo lavoro.

Tra il miele liquido e quello cristallizzato, preferisco di gran lunga quello cristallizzato.
Partiamo da qui, dal raccontare quello che ho sentito dire, a proposito di questo lavoro, con interesse e rispetto, e sempre con faticosa ma sincera gratitudine. Ascoltando le varie opinioni, anche se non sempre condivise, si capisce meglio cosa ho o cosa non ho inteso fare. C'è sempre una cosa, un particolare, un punto di vista che sta pacificamente insieme al suo contrario, alla negazione di ciò che potrebbe essere e che spesso non è, o non lo è del tutto; a volte che non è mai stato.

Lasciatemi dire, anzi ribadire, che quasi nessuno (questo mi meraviglia molto) dà importanza al solo fatto estetico, al solo piacere di mettere insieme forme e colori senza per forza doverci ricamare sopra una spiegazione che, sempre per forza, deve essere plausibile e rispecchiarmi. Indirettamente tutto mi rispecchia, e questo è perfino banale sottolinearlo, ma altrettanto direttamente solo ciò che voglio dire io, o non dire affatto, mi rappresenta. Nel rappresentarci, un lavoro ci dice cosa abbiamo voluto dire per mezzo di quello che siamo, di come viviamo in quel momento. Nel rispecchiarci, invece, un lavoro ci dice quello che non si vede ma che solo noi (di solito è così) sappiamo esistere. Perché rispecchiare vuol dire “semplicemente” specchiare più volte, vuol dire confrontarci con noi stessi in continuazione.

In “Silenzio 21/7” le due forme di narrazione si uniscono e danno seguito ad una lettura complicata, controversa, non facile da decifrare, ma che risulta estremamente interessante dal punto di vista evolutivo per la parte che riguarda il carattere – rappresentazione -, sia per quello che riguarda la consapevolezza di una costante crescita e maturità mia personale, di uomo prima di tutto, e artistica dopo. Specchiarsi e rispecchiarsi.

Ma vediamo quali sono stati i commenti. Quello che mi ha dato più fastidio, lo dico senza tanto girarci intorno, è stato quello di un collezionista – commercio -, appassionato di arte contemporanea (di solito non si va oltre in questi casi, e tutto quello che è venuto prima è quasi sempre un tabù), il quale mi ha sottolineato, con ferma convinzione, che in questo lavoro io rompo con il passato e creo un disorientamento nei confronti di galleristi e, conseguentemente, all'interno del mercato dell'arte. Oddiooo... Mi sono sentito male.

Dopo questa osservazione sono rimasto di stucco, senza parole, penosamente impietrito. Quasi mi sentivo in colpa, come se avessi commesso un reato o fatto del torto a qualcuno. Mi sentivo un po', metaforicamente parlando, quasi sporco, come se avessi commesso una cosa che non avrei dovuto fare. Questa la prima sensazione a freddo. Per questo motivo ho sentito il bisogno di confrontarmi subito con altri esperti, persone che l'arte l'hanno studiata e la masticano tutti i giorni, nel senso che l'arte la toccano fisicamente tutti i giorni, che l'arte la amano, e ho subito capito che dovevo stare tranquillo, rilassarmi e andare avanti per la mia strada. Di solito capita questo, va a finire così!

Non che non avessi capito il senso di quella osservazione, ci mancherebbe, ma non essendo quello della vendita e del guadagno immediato lo scopo principale e, almeno per ora, per oggi, nemmeno quello secondario, il motivo per cui mi dedico al mio lavoro, forse per questo importante motivo, mi ha disturbato non poco sentire quella frase. Oggi la cosa è superata, con convinzione e orgoglio, e senza più pregiudizio. Con convinzione perché mi sono reso conto che tutto quello che faccio è pur sempre frutto di scampoli della vita mia, e gli scampoli della vita di oggi non sono e non possono di certo essere uguali agli scampoli di ieri e dell'altro ieri. Con orgoglio perché sono convinto che il non accettare di sedermi comodamente sul già fatto, il pormi sempre e costantemente nella condizione di rimettermi continuamente in gioco con forme di arte non sempre unite da un banale filo conduttore, magari confezionato o camuffato ad arte con facili scappatoie formali e cromatiche, mi dà continuamente stimoli per fare sempre meglio. Che poi questo destabilizzi e disorienti l'altrui convinzione, certezza, all'interno di una forma mentis alquanto stereotipata e convenzionale, questa sì, con pregiudizio, di questo mi permetto il lusso di infischiarmene. Io dentro questo lavoro mi ci vedo, mi ci trovo e ritrovo ogni volta che lo guardo. In che modo mi ci vedo? Nel senso che percepisco sulla mia pelle ogni singola sensazione, emozione, sofferenza, destabilizzazione, rottura, riflessione che, nei mesi in cui questo lavoro è stato fatto, io mi sono spaccato a mia volta, mi sono spaccato in due con lui. Mi sono frantumato in mille pezzi con lui, insieme a lui. Ecco perché Io sono Lui e Lui sono Io. Ma ogni Lui siete Voi, siamo Noi.

Che poi chi guarda l'arte con l'occhio del commerciante, cogliendo immediatamente l'opportunità del vil denaro dietro a ogni cosa, bella o brutta che sia, non veda la facile e scontata perfino, logica conseguenza stilistica con i precedenti – io la vedo eccome -, non so cosa dire; studiate, aguzzate l'occhio e l'ingegno.

Altre osservazioni, invece, mi hanno tranquillizzato, facendomi sentire più a mio agio. Forse perché già note, come quando sento dire che il mio è un percorso mai finito, mai giunto ad un traguardo perché guarda oltre, e mira a cercare sempre nuovi obiettivi, il più delle volte irraggiungibili, perché, aggiungo io, forse inesistenti. Questo non sarà in linea con quello che si aspettano i galleristi e i collezionisti, il mercato insomma, ma fa pur sempre parte di un modus operandi degno di rispetto, da non sottovalutare. Per come la vedo io, al contrario, andrebbe considerato meglio e con più attenzione, capacità di farlo permettendo. Ormai è chiaro anche a chi ancora si ostina a far finta di non capire: chi si occupa prevalentemente della mercificazione dell'arte, non può occuparsi dell'anima dell'arte. Sono due ragioni di vita e modi di essere-esistere che non possono stare insieme da sposati, ma solo come amanti occasionali. Chi vede nell'arte una evoluzione e una elevazione culturale, non metterà mai al primo posto il suo valore economico; tanto meno si interessa a quest'ultimo anteponendolo alla qualità e originalità dell'opera d'arte in quanto tale. Ogni volta che torno su questo argomento, non c'è niente da fare, non riesco a stare calmo. Sarà perché negli ultimi anni ho avuto modo di conoscere persone qualificate che si spacciano per amanti e conoscitori dell'arte per il solo fatto di conoscerne il valore economico e, guarda caso, principalmente dell'arte contemporanea che, dati alla mano dell'ultimo borsino o quotazione d'asta, “tira” (!?). Non so, sta cosa che, sempre più, l'interesse per l'arte si limiti a ruotare intorno al suo valore economico, sinceramente mi fa incazzare, e non poco!

Andiamo avanti, tra le altre osservazioni mosse, una in particolare mi ha colpito, quella di chi ci vede dentro un mazzo di carte aperte che si stanno distribuendo o che si stanno tenendo aperte e guardando, per capire cosa si ha in mano. Insomma, un mazzo di carte che si apre a ventaglio – questa è mia – per metterle insieme al meglio, formando coppie di forme e colori da giocare, per vincere ben inteso! Sì, devo dire che guardando questa composizione ci sta anche il mazzo di carte. Peraltro non voluto, né mai pensato di fare questo accostamento. E' più il concetto di un ventaglio che si apre, casomai, di qualcosa – a prescindere - che si apre a ventaglio, casomai, che mi ha coinvolto e condizionato, in parte, nella composizione.

La bella composizione – senza virgolette -, appunto, elemento fondamentale e indispensabile per fare di un lavoro un'opera d'arte. Anche si trattasse di una tela bucata, perché il formato della tela, più il colore o l'assenza di colore sulla tela che a sua volta diventa colore, la dimensione e la posizione del taglio – proporzione -, fanno di un lavoro di Lucio Fontana una bella composizione. Più la composizione risulta “semplice”, nel senso di essenziale, minimale, più risulta facile trovare un eventuale errore, sbavatura, incongruenza; per capirsi, qualcosa di stonato. Più l'impalcatura della scena – composizione - risulta complessa, macchinosa, ingarbugliata, più risulta difficile mettere l'autore con le spalle al muro. Per capirsi, Fontana è più a rischio di Michelangelo.

Direi che adesso ci siamo quasi per davvero, anche perché, al netto di tanti discorsi e critiche sentite, tutte legittime per carità, è il volto che ho voluto mettere in basso, formato da questi due specchi azzurri – dramma - letteralmente divisi, spezzati in due, rotti è la parola giusta da usare in questo caso, che mi ha dato l'incipit per questa “rappresentazione”. Per una volta tanto nessuno mi ha mai detto, a proposito di “Silenzio 21/7”, che è riuscito a vederci dentro un riferimento con “L'urlo” di Munch. E' proprio il caso di dire che: chi ha pane non ha denti e chi ha denti non ha pane. Per una volta, una delle pochissime volte che un'opera d'arte famosa e da me molto apprezzata mi ha incanalato all'interno di un percorso, in seguito da me re-interpretato, nessuno è riuscito a capirlo, a coglierlo. Quando non mi collego direttamente con niente e con nessuno, fossero anche i più grandi capolavori di tutti i tempi, ecco che in molti vedono, in quello che faccio, quello che loro pensano e credono di vedere, ma che solo loro vedono.

Così va il mondo dell'arte, troppo in fretta sdoganato, non sempre da esimi professori, per essere troppo in fretta consumato, con avidità, da tutti.

Apertura a ventaglio, appunto, dentro la quale apertura, in mezzo alla quale, quel volto, il mio volto, il tuo volto, il suo volto, è spaccato in due dalla sofferenza, dai mille dubbi che lo attanagliano e lo turbano quotidianamente, e fa da perno alla scena-composizione. Il punto di fuga e il punto di vista, di questo mazzo di carte, di questo ventaglio, coincidono. Di tutto quello che ci volete liberamente vedere dentro tutto questo, a vostro insindacabile giudizio, è un “fulcro mascherato” di quello che qui dentro ho voluto mettere (composizione) e intendere (concetti e turbamenti miei, detto più elegantemente, stati d'animo).

Per ultimo, vorrei dire, alla faccia di tutti gli interventisti, che ogni volta che credo di essere arrivato e di avere capito tutto, ecco che iniziano nuovamente a farsi avanti riflessioni e domande che sembrano non volermi mai dare una tregua, e mi fanno ritornare di nuovo al punto di partenza. Continue riflessioni che servono per rinnovarmi, per cercare strade nuove, ma che stanno diventando al tempo stesso perplessità che ancora non mi appagano del tutto, che non mi convincono del tutto e che mi mandano, per questo, continuamente in confusione, in crisi. Quindi è più per il bisogno mio di sostenere in continuazione un esame di maturità mio personale, mio e solo mio, inutilmente e stupidamente tra l'altro, a cui mi sono morbosamente affezionato e legato per non invecchiare mai, che mi complico da solo la vita; ma che allo stesso tempo mi fanno riflettere e, per questo, anziché rifiutarle le conservo e le coltivo. Posso considerare queste mie continue perplessità una sorta di crisi perenne che si addice solo ad un matto o a uno psicopatico? Io sono un matto? Io sono uno psicopatico? Io sono in equilibrio con la mia parte interiore ed esteriore? Io non mi chiedo se sono normale, perché questo già lo so, di non esserlo. Impazzisco solo all'idea che mi si possa definire normale. Strano, ecco, stano sì, strano mi piace, io mi sento strano. Ma queste perplessità che sorgono e fioriscono in continuazione ogni volta che finisco un lavoro e devo iniziarne uno nuovo, sono il frutto di una mia debolezza mentale con la quale devo ancora fare i conti, oppure sono il carburante di cui mi alimento per correre come un matto sempre avanti e senza la paura di rimanere a piedi, tanto è il carburante di cui dispongo? In ogni caso, in qualunque modo la si voglia vedere, io resto sempre io; e che sia sempre io, se uno sa guardare bene prima di parlare, si accorge che io sono e resto io.

Una cosa sto capendo, anche se tardi, ma ci sono arrivato. Sto capendo che me ne devo fottere del parere altrui e, anche se dico questo, per ora, per adesso, il parere altrui mi serve ancora e mi fa bene. Mi serve per crescere, per migliorare, alla faccia di chi mi considera solo per il peggio di quello che sembro essere, ma che non sono. E questo mi piace, perché mette in evidenza la diversità e la distanza tra chi crede di sapere e giudica sempre a vanvera, e chi sa più di quello che gli altri credono che sappia, e si modera.

Perennemente in crisi, con il mondo, con tutti, in crisi con me stesso.

Perennemente insoddisfatto, insoddisfatto di tutto.

Perennemente triste, perennemente contento.

Perennemente col dubbio di non avere mai fatto abbastanza.

Perennemente col senso di colpa che mi opprime.

Perennemente convinto di poter fare sempre di più.

Perennemente, perennemente, perennemente... Io.

Su una cosa non ho dubbi, amo la vita più della mia stessa vita, e la mia vita è stata sacrificata, fin da piccolo, all'Arte.


Verona, 25 marzo 2022: Si chiude una porta, si apre un portone!