LA LUCE 19/1


Raccontato dall'autore

Oggi 15 gennaio 2019, S. Mauro, inizia una nuova avventura. Anche se non ho terminato il racconto della precedente, mentre mi accingo a raccontare di questo, ho deciso che resterò ancora un po' su questa terra. Non devo più meravigliarmi di niente, perché quando dico che sarò breve poi mi dilungo e quando vorrei dire di più, mi contengo. Anche se non sembra, ma in questo caso, in questo racconto vi assicuro che sono stato più che sintetico. Chissà che non torni, magari più avanti, sull'argomento, vediamo... Sono sicuro che ora direte che fin qui mi sono lasciato andare anche troppo, in effetti questo è quello che sembra, ma vi assicuro che non è così. Alcuni critici che mi leggono dicono che sono prolisso, e sinceramente, detto da loro, che quando recensiscono gli artisti si dilungano con frasi stirate all'inverosimile, spesso prive di senso, elusive e poco pertinenti, sinceramente, non capisco. I critici di oggi, su tutto e su tutti in egual misura, eruttano fuori valanghe magmatiche di aggettivi molto belli da sentire, ma che non c'entrano un fico secco con ciò che si sta guardando, tanto vengono distribuiti in abbondanza, ricoprendo tutto quello che incontrano, appunto, come una valanga magmatica. Questo il pensiero d'introduzione scritto all'inizio di questo nuovo lavoro. Oggi è l'8 febbraio 2019, devo precisare che ho preso la tanto sospirata decisione, quella di fare un altro passo verso l'alto. Tolgo di mezzo dal titolo il colore, che non era solo “un colore”, e tengo sempre più buona “La Luce”. Ancora tante, troppe, le cose, i sogni, i pensieri che mi scorrono davanti e che mi fanno compagnia giorno e notte, compreso quando lavoro. Credo fermamente, che tanti di questi pensieri, che solo apparentemente non c'entrano con l'arte, alla fine c'entrino tutti. C'entrano in quanto tutto quello che transita per la mia mente, sia in entrata che in uscita, lascia un segno, spesso indelebile, che mi plasma e caratterizza. Da tutto questo ne esce fuori un modo di essere, di vivere, di lavorare. In tal senso, credetemi, fintanto che avrò la forza di lavorare e di raccontare, che tradotto significa raccontarmi e dichiararmi, vi chiedo semplicemente di portare pazienza, di mettere insieme tutti i cocci, anche i più insignificanti, e vi assicuro che alla fine, un vaso, un piatto, o un altro souvenir, anche il più insignificante e il più kitsch di tutti, prenderà forma e potrebbe pure risultarvi bello. Un vaso rotto, se è di valore, se è artisticamente valido, anche se rotto e assemblato con tutte quelle rughe irregolari dei pezzi uniti tra loro, resta pur sempre un oggetto di valore. Sarà che sto invecchiando, che le mie di rughe, per tanta crema che io metta, stanno uscendo fuori, io cerco di aggrapparmi il più possibile a giustificazioni, peraltro sensate, ma che fino a poco tempo fa non consideravo. Un bel vaso artistico rotto e rimesso in sesto, è come un viso artistico solcato dalle rughe della vita con le quali cerchi di far pace il prima possibile, per poi diventarci amico ed imparare in seguito a dialogarci insieme, continuando a guardarti allo specchio, senza mai abbassare lo sguardo, per dirti sempre: ”quanto mi piaci!”. Io vivo questa fase, e la vivo così, tanto per dirvi quanto sia sempre più stravagante e complesso il mondo di un uomo ormai non più giovane, e di conseguenza, quante siano ormai le cosa che si possono raccontare senza remore; senza la volontà di fare solo rumore. Ricordo che da piccolo, quando ero in collegio alle elementari, a Castiglione delle Stiviere, avrò avuto otto o nove anni, per il mio onomastico, mia mamma venne a trovarmi, povera donna, facendosi circa dodici chilometri a piedi tra andata e ritorno, portandomi in regalo una pistola, che all'epoca, sembrava vera, tanto era verosimilmente finta. Sì, certo, come no, i giocattoli erano tutti rigorosamente da maschietto. Pistola, ruspa, camion, macchinine, arco con frecce, pattini a rotelle, l'album di figurine Panini, corso di tennis sui campi del Belvedere. Tutto in regola, tutto nella norma, mai ricevuto o giocato con le bambole, chiaro (?!). In questi giorni ho iniziato la lettura di un libro che a vederlo da fuori non gli daresti credito, ma essendomi stato regalato da un'amica che l'aveva letto da poco, consigliatole a sua volta dalla figlia, mi disse di leggere solo quelle due pagine, che secondo lei erano molto significative. Il libro si intitola Cara Napoli di Lorenzo Marone. Io lo prendo, un po' perplesso perché pochi sono i libri che mi sono stati consigliati e che ho apprezzato, e la sera stessa leggo proprio quelle due pagine. In quelle due pagine ho percepito subito qualcosa di profondo, in quelle due pagine è raccolta l'essenza storica di tutta la napoletanità. Essenza che parte proprio dalla sua fondazione, dal mito della Sirena Partenope. Verona è considerata la città dell'amore, grazie a Shakespeare, Napoli invece, è stata fondata con Amore e per Amore, grazie a Partenope. Questo libro l'ho fatto mio, ho iniziato a leggerlo dall'inizio e me ne sono subito innamorato. Ho deciso che quest'anno sarà l'anno di Napoli. Alla carissima amica ho chiesto una dedica: “A Mauro, mio caro amico, con l'augurio di poter andare a “sentire” quella meravigliosa città”. A “sentire” quella meravigliosa città, beh, in questo verbo si rispecchia tutta Napoli.
Nella prima parte del libro, manco farlo apposta, l'autore descrive con partecipazione verace, che è amore, le tante esperienza decorative che hanno preso vita sui muri di Napoli, dando alla città un vero riscatto culturale che la pone con dignità, in questo specifico caso, al pari di altre grandi capitali, dove la street art è da tempo parte integrante di quei tessuti urbani e sociali. Immaginare New York, Londra, Parigi, Berlino e oggi anche Roma, senza la street art, è come immaginare Napoli senza Pulcinella, la pizza, la canzone napoletana, il babà e la pastiera, o senza il Vesuvio, è impossibile! Adesso, da quando ho scoperto che a Napoli è rimasta solo una delle due opere di Banksy, l'altra è stata coperta da un writer idiota, nel mio prossimo viaggio oltre a rivedere Capodimonte, cercherò di non perdermi le straordinarie opere di strada di Napoli. Il sindaco di Napoli, oltre che interessarsi di far sbarcare e ospitare gli immigrati, dovrebbe anche occuparsi di salvaguardare le vere opere d'arte che gentilmente e gratuitamente qualche vero artista, per caso e per amore, ha donato alla città. Ne approfitto per raccontarvi, di nuovo, che dieci anni fa litigai con un amico professore di italiano, che si interessava all'arte contemporanea, tutto quanto fatto prima non era assolutamente contemplato e considerato, di sicuro perché non conosciuto e non accessibile economicamente. Ebbene, questo poco esimio professore, mi disse che se avessi mai osato sporcare o imbrattare i muri con disegni o scritte varie, ipoteticamente parlando, sarei stato da lui denunciato alle autorità competenti. Credetemi, non stava scherzando. Per questo e per altro ancora, sempre di molto poco sensato, con l'amico professore che si interessa di arte, limitatamente al suo sali e scendi commerciale, ho chiuso tutti i ponti. Tra chi conosce perché ha passato le notti in piedi studiando per diplomarsi e laurearsi, e per questo conosce e ama tutta l'arte, e chi commercia e specula solo sull'arte contemporanea, perché più difficile da classificare e per questo più facile da assoggettare ai capricci dei mercati e personali, c'è un abisso, un abisso colmo di vuoto e pieno solo di spocchia.
Ho trascorso tutta la domenica in casa, perché anche questa volta ho dato inizio a un'avventura che sembra avere le caratteristiche di una bella storia. Ma facciamo un passo indietro e torniamo a ciò che stavo dicendo prima. Sarà perché vedo questa storia già conclusa, ma oggi 21 gennaio 2019, mi prendo la responsabilità di quello che vi dirò, perché già lo vedo, e vi assicuro che sarà proprio un bel vedere. L'animo, però, dovrà essere puro, no, non del tutto, non serve che sia immacolato, ma scevro da ipocrisie e pregiudizi, quello sì.
Quando un artista si confronta con il tema della luce, non affronta soltanto “la luce” in quanto fonte luminosa, ma è tutto quello che “la luce” rappresenta come concetto, simbolo o pura e semplice percezione o immaginazione che viene toccato. C'è una differenza tra la luce naturale e la luce artificiale? Sì, certo che c'è la differenza, ma detto ciò, cercare di capire quale sia la migliore tra le due non è un buon modo per conoscerla. Sia quella naturale che quella artificiale hanno pari dignità, e oggi si giustificano entrambe dignitosamente, dipende che luce si sta cercando, si vuole o ci serve. Dipende da quale periodo della vita si sta vivendo, dipende da chi e cosa ti vuoi circondare in quel determinato momento. A tutti piace il buon cibo, ma quando sei sazio, anche il miglior cibo ti lascia indifferente. Dico questo perché più osservo la luce che sto creando, e più mi convinco che questa luce non è solo una luce, ma siano più luci, che, fuse tra loro, danno vita a questa luce. Una luce artificiale e scenografica, che nasce però da madre natura, e che per mezzo della sapiente arte del passato, lo ripeto fino alla noia, ci insegna e ci suggerisce sempre spunti vitali che vanno tradotti, filtrati, declinati e contestualizzati all'indicativo presente. Vai a trovarla oggi, la differenza tra il naturale e l'artificiale, non c'è più, in niente, persone comprese, salute compresa, politica e religione comprese. Non è pura retorica, o provocazione spicciola, ma una resa dei conti definitiva all'evoluzione della specie. Tutto quello che ne consegue, appunto, è il traghettamento tra una forma primordiale e arcaica, ma naturale e genuina, ad una forma sempre più disumanizzata e artificiale, che ci sta, subdolamente, trasformando in massa. La conoscenza approfondita, unita all'umiltà e a tanto lavoro, che è indispensabile, fanno capire quanto sia fondamentale diventare bravi oggi, grazie a ciò che è già stato fatto ieri e l'altro ieri. Ma qui mi fermo, non voglio iniziare come al solito andando a parare sull'importanza della storia e dell'arte del passato. Tanto lo sapete ormai, per quanto mi riguarda, io e il passato siamo una cosa sola.
Oggi è San Valentino e come al solito, prima di iniziare il lavoro di pomeriggio, faccio un giro in centro città giusto per prendere una boccata d'aria e un raggio di sole, quando c'è. Verona è sempre piena di turisti e sembrano davvero tanti quando si cammina per il centro, poi, una volta usciti dal centro, rimani solo, e ti accorgi di quanto sia labile il concetto del tanto e del poco, del grande e del piccolo. Ormai sono convinto, e c'è poco da scherzare su questo, che se stai bene con te stesso, almeno in gran parte, stai bene con il mondo intero, e trovi sempre un modo per gioire, a prescindere dalle dimensioni...
Godere del dono della libertà e dell'indipendenza – solitudine -, è una fortuna che non ha eguali e che nessuno potrà mai comprare. Per chi non comprende, questa è una disgrazia, per chi comprende, questo è un vero e invidiabile privilegio. Quando si gode di questa fortuna, malgrado le tentazioni a cui veniamo costantemente sottoposti, difficilmente si cede a queste, anzi, si combattono per allontanarle, tanto ti sta a cuore la tua solitudine.
Godere del dono della libertà è faticoso e si prega affinché tale dono rimanga e cresca dentro di te. Godere del dono della libertà è impegnativo, ancorché faticoso, mantenerlo, però, ti permette di donare a tutti e a tutto, indistintamente, ciò che fai e ciò che sei, il capitale che possiedi, tutto te stesso, anima e corpo. Ovviamente ho comprato una scatola di Baci, spero di arrivare a domani, il 15 del mese; a proposito di continue tentazioni. Comunque, se Cupido mi vorrà colpire che faccia pure, non sarò certo io ad oppormi.
La solitudine ti permette di essere sempre collegato, di accumulare costantemente materiale – energia -, che serve ad alimentare la mente, ma pure il corpo e lo spirito. Tanto la mente è sempre lì, accesa, a riportarti ogni tot di tempo anche là, al lavoro che stai facendo in quel momento. E ogni momento è buono per riflettere su cosa stai facendo, e per capire come procedere per rendere al meglio ciò che ancora non è finito.
Mi chiedo, ma davvero l'arte moderna e contemporanea è più “buona” se è resa minima fino all'osso, e l'arte costruita su impalcature più complesse, sempre a norma, ovviamente, è da ritenersi per forza meno “buona”? Questo concetto su quali teorie si fonda? Guardate che, tanto è difficile e complesso togliere bene, tanto è difficile e complesso aggiungere altrettanto bene. Ma perché si esalta tanto la nouvelle cousine, quando poi, tutti e di nascosto, ma mica poi tanto, preferiscono andare in una trattoria locale a mangiare bene e tanto?
A proposito di cibo, ieri sera, festa di San Valentino, sono stato invitato fuori a cena dall'amica che mi ha regalato il libro su Napoli e dal marito, a mangiare il bollito con la pearà, e gli immancabili tagliolini con i quattro sughi, fegatini compresi, un ottimo Valpolicella e dolci fatti in casa hanno completato il menu. Difficile da spiegare, ma tra di noi non c'era melassa che colava e straboccava fuori dai vestiti firmati, non c'erano sguardi languidi e frasi insulse sussurrate, ma io percepivo ugualmente Amore.
Oggi 15 febbraio, la mia amica, sempre quella, mi ha regalato un altro libro, un romanzo di Kent Haruf, uno scrittore americano morto da poco, e che io non conoscevo. Ormai mi fido della mia amica, donna colta e dalle larghe vedute, lei che fa ancora della lettura il suo hobby preferito. Il titolo del libro è “Le nostre anime di notte”, e da quello che ho letto sul risvolto della quarta di copertina, capisco già che non mi toccherà la mente, ma farà soffrire un po' il mio cuore. Se gli uomini trovassero più tempo per leggere, per scrivere, per ascoltare buona musica o per dipingere, avrebbero di sicuro meno tempo per annoiarsi e diminuirebbero le possibilità di diventare paranoici, e pure quelle di rompere ossessivamente i coglioni al prossimo.
Quello che ho appena detto non ha nulla a che vedere con quanto successo a mezzogiorno di sabato, e che riguarda il rapporto che c'è, o che c'era, o meglio, che non c'è mai stato con mia mamma. Solo a scriverla, la parola mamma, mi mette a disagio. Come ormai sapete, ho sessant'anni, e credo sia giunto anche per me il tanto sospirato momento di rivendicare il mio sacrosanto diritto di vivere in pace, come lo è per tutti, mamma compresa, almeno così raccontano le cronache. A proposito delle cronache che hanno sempre visto e raccontato di mia mamma, felice e serena, a cui io non ho mai creduto nel modo più assoluto, ma tant'è... Arriva per tutti il momento in cui si deve prendere atto che quello che abbiamo oggi, in gran parte almeno, è il frutto di ciò che abbiamo seminato in passato. Adesso rivendico il mio diritto di vivere come cavolo voglio e decido io, come ha deciso lei, a suo tempo, di vivere a modo suo. A me sembra, ne sono convintamente convinto, che così facendo, i conti tornino tutti, ed equamente distribuiti. Un vero e proprio mantra che mi sono sentito ripetere da tutti i parenti per decenni, già da quando Enrica se n'era andata, lasciando suo figlio da solo, e sottolineo “da solo”, è stato questo: “tua mamma ha tutto il diritto di rifarsi una sua vita, questo devi capire e che ti piaccia o no, devi accettare”.
Ovviamente, non solo non l'ho accettato, e questo è comprensibile, anche se alla fine non potendo fare nulla per impedirlo, sono stato costretto ad accettarlo per forza, ma il fatto è che non l'ho mai capito questo suo gesto, anzi sì, ma solo in seguito, non subito, l'ho capito eccome. Intendo dire che la verità, che nessun parente vorrebbe mai sentirsi dire ora, è che Enrica, in qualche modo, a suo modo, è fuggita via da suo figlio, in quanto non è mai stata capace, o non si è mai sentita in grado di svolgere il mestiere di mamma. Fare i mestieri in casa d'altri quello sì gli riusciva molto bene, anche a cucinare in casa d'altri le riusciva molto bene, ma fare la mamma a casa sua, beh, non era mai stata “educata” a questo. Ben inteso, mi voleva molto bene, ovviamente, ma fare la madre è un mestiere che si impara fin da subito, dall'inizio e continui a farlo fino a quando non sarebbe nemmeno più giusto e normale farlo. Insomma, tutto il contrario di quello che è successo a me, a lei, a noi due. Per quel pochissimo tempo che abbiamo vissuto insieme, mia mamma ed io non siamo mai riusciti a creare uno straccio di legame che avesse, almeno in parte, i connotati di un rapporto genitoriale convenzionale. Lei non sapeva mai cosa dirmi e come comportarsi, io, dal canto mio, già abbastanza cresciuto e formato dal collegio, non riuscivo a capire a cosa servisse avere intorno una madre. Pensate ad avere tra i piedi anche un padre e un fratellastro, mio Dio, che inutile assurdità. Adesso, sempre loro, i parenti, avrebbero da ridire su questo, nel senso che quando volevo comprare libri, tele e colori, o farmi un soggiorno a Parigi, i soldi mia mamma me li dava. Ma non voglio entrare in questa assurda e inutile polemica, non servirebbe a capire il nocciolo della questione, casomai metterebbe ancor più in risalto che la parentela che mi sono trovato, ahimè, quella era e quella è rimasta, molto ignorante. E' ancora fresco il ricordo (le cattiverie sono eterne come la morte, solo che loro restano eternamente vive) della frase che lo zio Sergio, all'epoca abitava a Milano, mi ripeteva più volte, con la volontà di farmi pesare il fatto che io chiedevo i soldi a mia mamma per dipingere. Mentre io facevo spendere a mia mamma i soldi per la pittura, lui riempiva il tempo e la mente della sua unica figlia con i fotoromanzi. Risultato di questa becera ignoranza parentale, a distanza di molti anni, è che Mauro facendo spendere quei soldi a sua mamma è diventato quello che è diventato, la povera cugina, invece, a forza di leggere fotoromanzi, ha confuso la realtà con la fantascienza, trascorrendo una vita da fotoromanzo. Ne sei orgoglioso adesso, caro zio Sergio, o ti sei vergognato anche tu, almeno un po', di come è andata a finire la storia della tua viziatissima figlia.
E sempre tu, caro zio Sergio, riesci ad immaginare il danno che mi hai arrecato quando, da piccolissimo, a casa tua a Milano, mi incutevi terrore minacciandomi di chiamare i carabinieri se non ti avessi ubbidito? Quella volta io piansi talmente tanto che mia nonna venne a prendermi e mi portò via da te, asino, per non dire imbecille, che non sei stato altro. Oggi, per tutte queste cose, rischieresti di andare in tribunale, imbecille che non sei stato altro, e come te, altri parenti ancora che con me si divertivano a letto, con la scusa di giocare. In quel letto c'era ancora lo scaldino con dentro le brace ardenti, per scaldare il letto, tanto era freddo, e il freddo entrava anche da quelle due finestre a sinistra e a destra del letto difronte, sempre vuoto d'inverno. In tre, in un letto solo, si stava più caldi. All'epoca, non avevo più di dodici o tredici anni.
Con uno di questi zii i giochi si protrassero anche nella casa nuova, mentre frequentavo i primi anni di Liceo, ma allora non si trattava più solo di giochi innocenti, che innocenti non sono mai, ma di un vero e proprio passatempo ludico prima del sonno. Lui arrivava quasi sempre con una mela in bocca, dopo aver passato due ore con la fidanzata, mentre io già dormivo, ma tra una mela che veniva morsa senza ritegno e altro che non voleva saperne di dormire, si passava una piccola veglia quotidiana, con la complicità di un silenzio tombale. Io non riuscivo nemmeno a deglutire, tanto ero allegramente imbarazzato.
Solo a quarant'anni compiuti lo psicologo mi fece capire che tutto quello che avevo subito io da piccolo, anche se io non gli avevo mai dato peso, perché in questi casi si tende a giustificare tutto, il peso di quello che era successo nella mia infanzia e adolescenza c'era, eccome se c'era, e pesava su di me come una montagna. Famiglia e Seminario, casa e chiesa, anzi, lavoro, casa e chiesa, perché se mi vedevano con un libro in mano o con un pennello in mano, per i parenti era solo tempo perso che non serviva a niente. In questi casi l'eccezione veniva solo da mia mamma ( quelle poche volte che era presente), e da mia nonna (più presente di mia mamma), due figure femminili, di vera importanza primaria. Un vero inferno psicologico per un ragazzino lasciato da solo a quell'età, cresciuto troppo in fretta, sballottato tra una rigidità cattolica e morbosa tipica di un Seminario ( la buona notte si distribuiva con la mano dell'assistente sotto le coperte), e un altrettanto cattolica e morbosa rigidità familiare (la morbosità era sempre celata tra le pieghe della vita quotidiana di campagna), e una vera e propria anarchia di giovane studente cittadino, sempre ribelle e troppo voglioso di crescere dentro un mondo ammantato più da una cultura ottocentesca e ormai superata, che da ideali e culture a me contemporanee. Questo è valso anche per l'arte, fintanto che un bel giorno, da uomo cresciuto, ma artisticamente non ancora ben maturo, mi sono accorto che l'arte è andata avanti, seppur con forme espressive, spesso, di dubbia valenza e onestà.
Eppure, ne sono certo, ancora oggi in tanti cadrebbero dalle nuvole se venissero a sapere tutto questo (sempre di parenti stiamo parlando), anche quelli, il Luigi, e quelle, la Dolores, che hanno sempre creduto e ancora credono, di sapere tutto, senza avere mai capito un bel niente. Anche a questo stomachevole e inutile ciarpame parentale, dico basta!
Ancora ricordo l'odore acre e ripugnante, quando mia cugina, sì la figlia del caro zio Sergio, spingeva la mia testa in mezzo a quelle sue due bocce grasse e sudaticce sul divano di Castiglione.
Lo ripeto fino allo sfinimento, la gente in generale, ma ancor più i parenti, sempre in generale, invece di impicciarsi degli affari altrui, vale a dire dei miei, imparassero a guardare le cazzate che prolificano in casa loro, nei loro pensieri, tra le loro calde lenzuola. Imparassero ad occuparsi delle corna e delle canne che prolificano in casa loro, nelle case dei loro bravi e santi figlioli. Ma si sa, all'epoca, tutti i parenti avevano i figli più piccoli di me, e, pur puntandomi il dito contro, nessuno avrebbe immaginato che poi, dal primo fino all'ultimo, dal più vecchio al più piccolo degli zii, in seguito, coi loro figli, avrebbero fatto tutti quello che non hanno permesso di fare a me e a mia mamma. Vale a dire, di restare coi propri figli, anzitutto, cercando, con i dovuti modi e tempi, che sarebbero senz'altro arrivati al momento giusto anche per noi, di rifarsi, perché no, una nuova vita, senza creare però traumi a nessuno. A me sembra tutto talmente chiaro e normale questo concetto che mi sembra altrettanto stranissimo che sia proprio io ad esprimerlo, tanto sono stato poco normale proprio io. Se la fretta è una brutta consigliera, ebbene, cara mamma e cari parenti tutti, questa fretta ha di sicuro contribuito a creare la disgrazia sua, di mia mamma, nell'aver sposato Giovanni. Un uomo senza scrupoli, senza le palle nel gestire ed affrontare il figlio di Enrica. Un uomo che le ha messo addosso il terrore, proibendole di vedermi e di telefonarmi. Ebbene, cara mamma e cari parenti, questo è quello che vi siete meritato. Io sono cresciuto senza mia mamma, lei ha vissuto lontana e senza di me, lui, Giovanni, ha gioito per tutto questo, e mo che la frittata è stata fatta e consumata, cara mamma, mo lasciami in pace. Lasciami stare e non tormentarmi più con le tue telefonate senza un minimo di senso logico, e nemmeno senza un minimo di senso che sia verosimilmente vicino al vero amore materno. Per quarant'anni mi hai telefonato sempre di nascosto, dall'ospedale, dal supermercato, da casa, riattaccando di tutta fretta appena sentivi i suoi passi avvicinarsi, e io dovevo fare sempre la parte del figlio forte e comprensivo, autosufficiente, sempre sanissimo, e sempre in grado di cavarmela da solo nel migliore dei modi e in ogni occasione. Mai mi è stata data la possibilità di recitare la parte del figlio prodigo, anche se io, questa parte, ho chiesto a mia madre di farmela recitare almeno per una volta, l'ultima volta, l'estate del 2017. Lei, al solo pensiero, quasi svenne al telefono. Tutto questo faceva parte di un accordo tra noi stipulato, affinché lei mi potesse chiamare sapendo che avrebbe potuto riattaccare all'improvviso, e io, in quel caso, avrei dovuto capire e portare pazienza. E mentre questo copione si ripeteva per quarant'anni, per tutti gli altri, quelli della parte sua, e anche per quelli della parte mia (sempre dei parenti intelligenti e sapienti stiamo parlando), io sono stato solo e sempre un figlio irriconoscente e ingrato. Ma vi rendete conto, ti rendi conto cara mamma, in che cavolo di casino mi hai costretto a convivere per tutti questi anni. Mentre è sempre fresco il ricordo di quella volta a Verona, ultimo periodo in cui abbiamo vissuto insieme, quando, uscita dal bagno e ancora mezza nuda, io avevo forse 17/18 anni, seduti sul bordo del tuo letto, mi portasti la testa sul tuo seno. Io ebbi una reazione di forte imbarazzo, e, dopo un istante di gelo, ero come paralizzato, mi alzai e andai a rinchiudermi nella mia camera, pieno di vergogna.
Per contro, quando facevo sesso sui divani del soggiorno, mentre tu dormivi, e lasciavo le mie impronte, quando tu pulivi non mi dicevi niente, anzi, ti chiedevi cosa fossero quelle macchie. Da piccolo, sempre a Castiglione, da solo in quella grande casa mai finita e attorniata da mille fantasmi, l'odore che ancora oggi ricordo con disgusto, è quello del tuo sangue lasciato in bella vista in bagno su quelle pezze di cotone bianco, ancora oggi, se penso a quell'odore, credo possa essere parte del mio rifiuto per certa “natura” femminile. Così mi hai insegnato tu a chiamarla, quella roba là. Io, all'epoca, avevo 6/10 anni. Mamma, parenti, vi siete mai chiesti come sono cresciuto io? No, impossibile, non eravate, nessuno di voi, tanto intelligenti per poterlo fare, e, ahimè, oggi men che meno. Mamma, parenti tutti, amici e conoscenti tutti, pensate forse che sia stato facile per me raccontare tutto questo, assumendomene le dovute responsabilità, pronto a dettagliare ancora meglio, se necessario, ogni singola cosa, episodio qui raccontato, o non ancora raccontato, tanto ci sarebbe ancora da raccontare?
Per decenni siamo andati avanti così, e per decenni mi sono sempre sentito ripetere le solite frasi, come questa che è, e che resta, la più stupida frase che come un mantra mi sono sentito ripetere all'inverosimile:” Tu sei forte Mauro, tu devi capire e portare pazienza, tua mamma invece, poverina, è lei che sta male e che soffre davvero e più di tutti, più di te”. Ebbene, se sento rivolgermi un'altra volta questa frase, giuro che a chi osa pronunciarla ancora, gli metterò le mani addosso e non so come andrà a finire.
Io ho già pagato abbastanza, psicologo compreso. L'unica persona che ha saputo, negli anni, darmi una mano per davvero a capire, aiutandomi a capirmi, per capire chi cavolo di persona fossi per davvero. Ho già versato troppe lacrime, e con le lacrime ho perfino impastato tanti colori. Con le lacrime ho convissuto fino adesso, e per essere sincero fino in fondo, ancora ci convivo. Per questo ho deciso che è giunta l'ora di dire basta, di dire stop a questo infanticidio che è sempre rimasto tale, e che non riesco più né a tollerare né a gestire.
Scusate lo sfogo, che, se non fosse per il fatto che tutto questo c'entra sia col mio carattere che coi miei lavori, non ve ne avrei mai parlato. Ma tant'è, anche questo è Mauro Pavan. Sabato 16 febbraio, senza arrabbiarmi più di tanto, cercando di far capire quello che per me è un valido motivo, il mio motivo, finalmente anch'io ho il mio motivo, ho fatto capire a mia mamma, che la smetta di tormentarmi con queste telefonate che non fanno altro che protrarre all'infinito questa lenta, struggente e immeritata agonia. Un'agonia che, peraltro, non giova al mio lavoro, e alla mia salute. Non giova e non ha mai giovato al mio carattere, sempre pronto a scattare per un nonnulla. Basta mamma, basta chiamarmi per chiedermi che tempo fa a Verona o per chiedermi come sto e come va, dandoti da sola la stessa identica risposta: “Tanto tu sei forte e te la cavi sempre”. Mo basta, basta con questa farsa insopportabile, ipocrita, priva di senso e priva di rispetto. Anch'io, cara madre, sono fatto di carne e ossa come lo sei tu. Se tu soffri, io soffro, se tu piangi, io piango. Se senti la mia mancanza, io sento la tua mancanza. Io ti manco e tu mi manchi. Se mi avessi voluto vicino a te, io ti avrei voluto vicino a me. Se io ti sono mancato nei momenti più importanti, tu sei sempre stata assente per i miei. Ti ho perfino ringraziato per avermi messo al mondo e per avermi fatto studiare, almeno fino ad un certo punto. Ti ho ringraziato per tutto quello che hai fatto per me quand'ero piccolo, di tutto questo ti ho ringraziato e ti ho detto che porterò sempre dentro di me i ricordi più belli di noi due, quelli di tanto, troppo tempo fa. Mo basta, è giunta l'ora di dire basta, basta e ancora basta!!!
Poi ci sei tu, per fortuna, ci sei ancora e sempre tu, presente per davvero, qui, davanti a me, e più ti guardo e più mi viene spontaneo aprire questa finestra, anzi, spalancarla, per far entrare aria fresca, per far entrare la luce, più luce possibile. Una luce vera, calda, mistica perfino. Una luce mediterranea, non nordica, una luce italiana, una luce veneta. Una luce che ha i sapori della mia infanzia, quando ancora la luce ti sapeva parlare in modo naturale, in dialetto trentino (i nonni e tanti parenti), mantovano e bresciano (la vita e il collegio a Castiglione delle Stiviere) e veronese (le scuole medie in Seminario e tutto quello appreso dai quindici anni in poi, e mai appreso bene del tutto). Questa è la mia Luce.
Domenica 17 febbraio, la “Luce 19/1” è terminata, e vi assicuro che è una luce davvero intensa. Dall'interno di una casa o di un castello gotico, oppure di un sogno, rigorosamente provvisto di una finestra che si spalanca sui misteri dell'infinito, è entrata la mia luce. Una finestra che consente al vento delle opportunità di riempire i polmoni della propria “casa” interiore e di buttare fuori tutte le negatività. La finestra spalancata che fa entrare tanta luce, la luce che rappresenta un'apertura verso la propria mente. Grazie a quest'apertura si riesce a vedere oltre. Una finestra spalancata che permette alla luce di travolgerti rappresenta nuove opportunità, nuovi inizi, nuovi orizzonti. La finestra, nei sogni, ti permette di trovare sempre una via aperta per la fuga, per la salvezza, e ti senti per questo, protetto e rassicurato. Poco importa quali siano le mura che la contiene, se reali o immaginifiche, la finestra resta il mezzo principale per far entrare la luce nella mia vita. Solo Dio sa quanto la luce mi sia mancata, mo basta, la luce deve entrare e io mi adopererò ancora, per il futuro, affinché entri, affinché entrino tutte le luci possibili e immaginabili.
Era proprio necessario parlarvi di tutte queste cose personali, dovendo parlare di arte, della mia arte? Sì, lo era, eccome se era importante. Tant'è che ora sto meglio, e voi, lo spero tanto, adesso mi conoscete meglio e, magari, mi capirete meglio. E capendomi meglio, capirete di certo meglio anche i miei lavori. Questo per me, alla fine dei conti, è quello che più di tutto mi sta davvero a cuore. Mettermi in piazza non è stato facile, e farlo, è stato per me, oltre ad uno sfogo necessario, una prova d'amore e di rispetto verso di voi che mi leggete, e che mi state conoscendo. Facile fare discorsi e proclami sull'arte, quando poi si tergiversa o non si riesce a spiegare la propria. In questo senso io intendo il rispetto verso tutti voi che leggete. Leggere per conoscere, conoscere per capire, così funziona in casa mia e nel mio studio, così funziona la mia vita.
Vedete, come ho già avuto modo di dire, ma lo ribadisco molto volentieri, tanto è fondamentale per me trasmettere questo concetto, l'arte prodotta da un artista vero, è, comunque la si pensi, sempre il prodotto di quello che l'artista stesso è. Questo punto, per difficile che sia da capire, rimane oggettivamente e inopinabilmente valido e pertinente, nel mio caso di sicuro, e mi rappresenta totalmente. La mia complessità di uomo, complessità che riassume una vita intera ormai, non certo piatta, non certo normale e di certo non priva di colpi di testa, è ben riassunta nei lavori che faccio. Un vero dedalo di espressioni artistiche il mio universo, dove, parlare di eclettismo potrebbe perfino sembrare eufemistico.
Parole queste che potrebbero essere scolpite sulla mia pietra tombale, e che molto bene rispecchierebbero chi è stato Mauro Pavan.
Parole scolpite come incisioni rupestri, incise con le unghie e colorate col sangue, sempre controllate e ben composte per mezzo di raffinate conoscenze.
Ecco perché ho deciso di raccontare sempre più di me, e meno di chi, prima di me e più fortunato di me, è già stato molto bene già raccontato - il passato -.
Le persone devono conoscere bene l'artista, ancor prima di guardare cosa fa o cosa ha fatto, o il contrario anche, che tanto è lo stesso. Comunque la si voglia mettere, l'uno prima dell'altro o viceversa, l'impegno che voi dovete metterci è comunque anche quello di impicciarvi sempre dei fatti nostri, dei fatti miei. Dio sa quanto se ne farebbe volentieri a meno, ma quando ci si espone, e si espone, bisogna accettare di mettersi in piazza, nudi però, senza atteggiarsi a fare il re o la regina.
Solo dopo esservi impicciati di noi, di me, potrete dire di aver conosciuto davvero un artista e i suoi lavori. Diversamente, non avrete mai capito del tutto, e questo è un vero peccato.
Questo discorso lo rivolgo anche a voi critici d'arte, sempre più presi a far soldi sulle spalle dei troppi ingenui e poveracci artisti che si ritengono tali o che vengono ritenuti tali, con troppa dubbia benevolenza da parte vostra.
Ogni tanto mi capita di pensare all'amore, nel senso dell'amare. Mi chiedo, come fanno quelli che amano e dedicano tutta la loro vita alla persona amata? Per me, in questo momento, sarebbe davvero un grosso problema, mi manca il tempo materiale. Quindi, chi ama è perché non ha un cavolo da fare? Beh, più o meno dev'essere così per forza!
Questa è la mia seria riflessione e la conseguente mia seria risposta a tutti quelli che mi chiedono ancora perché sono single.
Che c'entra questo? C'entra c'entra, eccome se c'entra. Tutto quello che fa un artista è lo specchio della sua esistenza e della sua anima, e di conseguenza, della sua produzione. Tutto quello che fa e che dice un vero artista, a prescindere, c'entra sempre!