Quand’è che si può dire che un artista crea, quando trasforma in visibile, in materia, una cosa, chiamatela quadro, lavoro, opera d’arte o quello che vi pare, che prima non c’era, non esisteva e che nessuno aveva mai visto prima e che, dopo la sua creazione, tutti possono vedere, ammirare, e criticare, per la buona pace di tutti i sapientoni. Bene, questo significa per forza che quella cosa creata sia o debba essere una bella cosa, una cosa ben riuscita? Assolutamente no, non dev’essere per forza così, anche se l’artista, al pari di una madre e di un padre che hanno generato un figlio, vede sempre il proprio lavoro come il più bello del mondo. La differenza però che delinea il confine tra due genitori che si affidano solo alla natura e un artista, è che, mentre dalla natura ti devi prendere quello che capita, per mezzo della conoscenza che si fa esperienza e delle leggi che la regolano, si può creare qualcosa di assolutamente ben fatto. Tutto da prendere con le pinze, ci mancherebbe, ma il concetto, se non strumentalizzato, mi sembra espresso chiaramente. Si studia, si guarda, si copia, si impara, si sbaglia, e poi, frullando il tutto, con un pizzico di buon talento, anche senza eccedere, si crea, si fa e si disfa a piacimento. Questo è quello che fa un artista quando crea, quando dal nulla, da un’idea, un’ispirazione, riesce a rendere visibile un lavoro che prima non esisteva. Un pittore che copia un paesaggio si può dire che abbia creato? Assolutamente sì, se quel paesaggio copiato è bagnato del sapiente e talentuoso sudore che imprime a quel paesaggio ciò che altri occhi non vedono e non colgono, se non per mezzo degli occhi dell’artista. Come quando un artista ci aiuta a leggere la facciata di una chiesa, la stessa chiesa, o un oggetto, un fiore, un volto e altro ancora, con tre o quattro colori differenti. Insomma, sì che si può creare anche copiando, se quello che si copia è filtrato e reso unico dal talento del suo copista. Diversamente, chi copia senza imprimere a ciò che sta copiando niente di suo, niente di personale, niente di originale che dia a quella rappresentazione nuove letture visive e interpretative, meglio farebbe se lasciasse tele, colori e pennelli sugli scaffali del negozio. Veniamo a noi, a questo nuovo lavoro. Tutto ha avuto inizio quando, parlando del più e del meno con un amico, sotto la festa di Santa Lucia, uscirono fuori discorsi sulla rappresentazione dei tappeti nell'arte. Massimo mi disse che il Maltese, secondo la sua opinione, rappresentò i tappeti più belli che si erano mai visti, io, ammettendo la mia ignoranza su questo pittore, risposi che nessun artista al mondo, avrebbe potuto scalzare dal mio podio il pittore che su quel podio io avevo messo tanti anni fa. Il tappeto più bello che un pittore avesse mai dipinto, quello che, quando penso ad un tappeto, mi viene subito in mente quello della Pala di Castelfranco Veneto di Giorgione. Mentre nei quadri di Francesco Fieravino, detto il Maltese, i tappeti si presentano come un abbondante vomito dopo un abbondante pranzo natalizio, nel tappeto di Giorgione, di natalizio rimangono solo i colori, i colori di un pranzo natalizio sì, ma francescano. La sbalorditiva semplicità di quel verde e di quel rosso, uniti in matrimonio da quella straordinaria “fede” così soffice, dorata, un po’ orientale, sono la prova che quando il matrimonio è ben combinato, dopo più di cinque secoli di convivenza, ci si ama ancora come il primo giorno di nozze. Questo matrimonio resta uno degli esempi più belli di come due soli colori sopravvivano al tempo creando continuo interesse e invidia in chi li osserva. In me di sicuro. Non me ne voglia l'amico, ma quel tappeto che fin dalla sua prima posa sempre là dentro si trova e vive, è per me un miracolo di assoluta modernità. Quel telo, quel panno, più che un tappeto, è il prolungamento della tunica e del mantello della Madonna, che da abito si fa, in rispettoso e religioso silenzio, caldo e morbido tappeto. Il tappeto di Giorgio Zorzi, divenendo un tutt'uno con la tunica e il mantello, da abito, scende dall'alto, esce dal corpo della Madonna dopo averne accarezzato la pelle, per farsi alla fine vero tappeto. Ne asseconda inoltre gli spigoli dell'architettura che ricopre, come una bandiera che, posta sopra un feretro, ne prende le sembianze sue e del defunto che lo contiene. Per me, questo tessuto verde e rosso, è il tappeto più bello ed elegante che sia mai stato realizzato. Il tappeto sul quale ogni Cesare e ogni Dio vorrebbe appoggiare i propri piedi. Un tappeto che è allo stesso tempo, pelle e abito, bandiera e architettura. Oggetto e carne, materia e spirito. Un tappeto che si fa trait d'union tra la terra e il cielo, tra il terreno e il divino. Un tappeto che solo a guardarlo, ti proietta all'apice dell’architettura piramidale di questa composizione, accompagnandoti su in alto, dritto dentro l’infinito, dentro il mistero della fede. Io, guardandolo, mi sento come ipnotizzato e mi lascio traghettare, dentro questo mistero, per poi ritornare giù di nuovo, coi piedi ben piantati per terra. E proprio coi piedi saldamente piantati per terra, ho voluto riprendere da questo dipinto, l’oggetto più innovativo e moderno che mi ha da sempre colpito e in esso contenuto, per farne a mia volta il supporto, la base, il tappeto per questa mia rappresentazione. Un omaggio a tutti i bambini, tutti quei piccoli Dei che per mancanza di un Cesare e di un Dio che si occupano di loro, muoiono di fame ancora troppo piccoli. “Dio mio!...” è a questo punto più un’imprecazione che un’esortazione. Per ora mi fermo qui, per oggi 27 dicembre, dopo aver concluso il mio tappeto, devo fermarmi un attimo per capire cosa voglio fare da grande, cosa voglio fare di grande. Ho trascorso questi giorni di feste a lavorare, lavorare sodo, con la speranza di gioire nel vedere cosa sarebbe uscito da queste mani, che spesso migliorano ciò che si cova nella testa. Ebbene oggi 2 gennaio 2018, questo lavoro si può considerare quasi finito, e devo dire che mi piace, mi convince. Durante la notte ho meditato su come dare più forza, nel senso di dare più risalto, alle fasce laterali rosse, e devo dire che la notte mi ha portato buon consiglio. Entro la sera di oggi 2 gennaio voglio dare tridimensionalità a questo lavoro ancora bidimensionale. La scommessa è ardua perché io rifuggo dalla terza dimensione, ma dare volume all’interno di un non volume, giocando esclusivamente sulla sovrapposizione di colori organizzati diversamente tra loro, e di forme geometriche che si sovrappongono quasi stessero lottando tra loro per emergere le une sulle altre, non è cosa semplice. In questo caso il tappeto sta diventando un vero e proprio fondale, che, ben organizzato, deve saper raccontare in una sola immagine, in un unico atto, tutto il dramma che la vita riserva ancora a tante persone. Non fatevi ingannare dalla bella composizione, dai bei colori, perché se guardando questo dipinto, l’unica cosa che sentirò dire è un’espressione di solo compiacimento per il bel risultato, se il dramma non vi arriva, se questo lavoro non vi provoca una profonda riflessione su quanto qui rappresentato, che sia chiaro, vuol dire che ho fallito nel mio intento. Io sento il dovere di guardare oltre, subito, dall’inizio, e sempre, ancor prima di iniziare un lavoro, ma voi, in questo caso, potete fermarvi prima, e cogliere in prima battuta solo il significato più emozionale di un lavoro, di questo lavoro, dato dall’impatto visivo e puramente estetico, e questo sarebbe auspicabile e già sufficiente, per ora. Altre domande non fatevele, non subito, non senza aver prima letto tutto il mio racconto. Seguite il mio consiglio, e per il momento limitatevi ad osservare. Una volta guardato il cartellone, una volta letta tutta la storia, una volta entrati dentro la storia, allora fermatevi, chiudete gli occhi coprendoli con le mani, annullate tutto, e riapriteli piano a piano, iniziando a guardare tra gli spifferi delle dita, cercando di penetrare dentro, oltre la figura, penetrando il tutto osservando anche da dietro, anche da dentro. Se farete questo sforzo, vi assicuro che non resterete solo spettatori esterni, non resterete mai fuori dalla scena, ma potrete entrarci dentro partecipando. Così facendo, giocherete un ruolo attivo in questa drammatica storia, non rimanendo sempre e solo semplici spettatori. In questo caso io sarò lì con voi e solo allora parleremo la stessa lingua, vedremo tutto con gli stessi occhi e sentiremo tutto con le stesse orecchie, e, inoltre, toccheremo tutto con le stesse mani, le mie e le vostre all’unisono. Entrare dentro la storia di un dipinto, riuscire a bucare la tela per oltrepassare il visibile entrandoci dentro, partecipandovi, come attori protagonisti intendo, non accontentandosi di essere solo spettatori, significa essere disposti a denudarsi di tutto. Le armature e gli abiti che solitamente indossiamo per difenderci e coprirci, vanno lasciati fuori, vanno deposti e lasciati nel guardaroba. Nel quadro, nei miei quadri, nelle mie storie, si entra completamente privi di ogni inutile orpello, si entra completamente nudi, si entra solo da uomini liberi. A questo punto, detto questo, capite bene che il gioco è fatto, che tutto inizia a funzionare, ad avere un senso, a suonare. Tutto diventa poesia e arte vera, pur dentro mondi solo apparentemente immondi e malsani. Il racconto di questa storia è giunto al termine. Abbiamo oltrepassato insieme le tre linee orizzontali che ci tenevano fuori e distaccati, e saltando la corda che ondeggia, siamo andati oltre, siamo entrati dentro alla storia, e ne facciamo parte. Ora il sipario è chiuso e il teatro è già vuoto, ma la rappresentazione, nel suo divenire, dietro il sipario, dietro le quinte, sta continuando, si sta completando, nel senso che si sta compiendo definitivamente. Il senso di un dramma umano, non ha mai fine, non è mai concluso definitivamente una volta che lo viviamo e ce lo portiamo dentro di noi. Idea, copione, appunti sui passaggi salienti della storia, definizione degli atti in cui la storia si narra e si compie, scelta degli attori, prove, pause, cambi in corso d’opera, aggiustamenti, poi si toglie e si aggiunge, si completa. Ecco come nasce e come matura un lavoro pittorico, che, poco o nulla, si discosta dal fare teatrale, cinematografico, musicale, e perché no, anche letterario. Non voglio sembrare presuntuoso, infatti, se vi fa comodo e piacere, lasciate pure perdere i miei consigli, imparate però a guardare oltre, per andare sempre più lontano, per scoprire sempre cose segrete e invisibili agli occhi dei miopi. Ebbene, fatto questo, siete entrati anche voi nel mondo dell’arte. Siete entrati dentro una dimensione privilegiata, che è la dimensione in cui dimorano e vivono gli artisti. Chi è rimasto fuori da questo mondo, chi non è riuscito ad entrarci dopo alcuni tentativi, non disperi, ma resti sempre umile e vigile, perché quel mondo è aperto a tutte le persone di buona volontà. Se poi, ben accompagnati, beh, ancora meglio, sarete facilitati in questo cammino. Anche se questo cammino difficilmente si realizza prima di aver compiuto la mezza età. Ieri sera, 3 gennaio, ho pensato all’immagine dei bambini africani che i mass media ci mostrano in pubblicità per enfatizzare il dramma al fine di fare presa sulla sensibilità della gente che in quel momento, magari sta cenando o pranzando comodamente seduta a tavola, con la speranza di raffazzonare qualche soldo che le persone, normalmente già povere di loro, impietosite e toccate nel profondo della loro sincera dignità, donano con l’illusione di aiutare per davvero questi bambini. In questi casi il mio cuore si spezza in due, una parte soffre e mi fa venire il magone e scendere una lacrima, sempre, e l’altra metà si irrigidisce e si indigna per questo. Si indigna perché è sfacciatamente palese la strumentalizzazione che si fa dello spazio pubblicitario per colpire al cuore la povera gente, con l’auspicio che in tanti donino soldi per poi strapparseli di mano e spartirseli, proprio come i soldati si strapparono e divisero la tunica di Gesù dopo averlo crocifisso. Questa speculazione sfacciata è a dir poco vomitevole e grida vendetta. I volti dei nostri bambini grassottelli, più simili a dei maialini che ad esseri umani, vengono mascherati e offuscati, quelli di questi poveri esseri umani, inermi e affamati, bambini ridotti a veri scheletri, con tanto di madri presenti e in situazione di struggente remissività e impotenza, umiliati e privati della loro sacrosanta dignità di esseri umani, vengono mostrati per colpire dritti al cuore le persone, anche, o soprattutto, per fare cassa. Vergogna! Questi poveri bambini sono letteralmente invasi da insetti e sul loro volto non manca mai una lacrima, una lacrima in cui si rispecchia il vero volto di un Dio, che è il volto di chi specchiandosi riesce a provare vergogna. E poi si fanno le cerimonie religiose per andare a guardare un telo con la morbosa curiosità insana e molto primitiva di capire a tutti i costi se, su quel telo, è davvero impresso il volto di Dio, ma per favore! Una lacrima che parla e racconta lo schifo di un genere umano che, solo a pensare che sia stato creato a immagine e somiglianza di quel Dio, verrebbe voglia di distruggerlo quel Dio. Ecco che sul mio trono, sulla mia tomba, non quella di un principe mecenate, ma sulla tomba del genere umano, io metto la mia Madonna con il suo amato figliolo, figlio naturale del genere umano, figlio anch’esso di un Dio. Dio mio, ti chiedo perdono a nome di tutti. Dio mio, in questo momento io smetto di mangiare, di dipingere, di sorridere, di sognare e di lamentarmi, e piango. Piango con te fratello mio, piango perché in questo momento mi sento in colpa e mi vergogno di quello che vedo, e mi incazzo da morire nel costatare che si sfrutti tutto questo al fine di speculare sempre e solo sulla pelle dei più deboli e indifesi. Dio mio, perdono! Dio mio, che ingiustizia. Dio mio, che vergogna! Dio mio!… E’ tempo che spieghi anche altro prima di concludere, più attinente alla tecnica pittorica da tempo adottata, che non al contenuto, qui già abbondantemente sviscerato, e questo lavoro me ne dà la giusta occasione. Perché l’oro? Perché con l’oro il passato ha creato da sempre anche il presente e il futuro, ha da sempre dimostrato e fatto capire, seppur involontariamente, che quando si parla di divino, di astrazione, quando si vuole rappresentare ciò che sta al disopra e oltre noi, nel senso che non si può rappresentare perché non visibile, l’oro, da solo, ha già spiegato e risolto tutto. Quando si vede l’oro, si capisce subito con chi si ha a che fare. Quando si usa l’oro, è subito chiaro ciò che si vuol dire. E’ subito chiaro che si sta rappresentando ciò che non si può rappresentare, ciò che non esiste, o meglio, ciò che non si vede. Anche se relegato dentro una forma definita e facilmente comprensibile, l’oro, di quella forma ne vuole rappresentare solo l’idea, mai il suo contenuto, non come lo intendiamo normalmente. Oggi, domenica 7 gennaio 2018, ho potuto terminare e firmare questo lavoro. A Giorgione piacendo, sarei lusingato se il maestro lo accettasse esposto vicino al suo, di lato, magari in un angolo, in silenzio e con rispetto, ma vicino al suo. Troppo ancora ci sarebbe da dire, perché dentro un quadro, spesso si nasconde e si materializza un universo, ma perdonatemi, sono stanco anch’io, e l’esperienza di una vita ormai avviata al tramonto, mi insegna che chi ha voluto capire ha capito, e chi non ha voluto capire, nemmeno scrivendo un libro intero capirebbe mai.